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Sono andato al cinema a vedere “Lo And Behold”, il documentario su internet di Werner Herzog

12 Ott 2016, Inserito da Alecsandria in Recensioni
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Quel vecchio fuoriclasse di Werner Herzog (classe 1942) ci ha abituati a cercare oltre quello che siamo soliti vedere: il suo sguardo è geniale perché analizza le cose sotto un profilo inconsueto ed affascinante e questo è il motivo per il quale ogni suo lavoro merita il prezzo del biglietto (per un approfondimento sul suo cinema rimando a questo articolo completo su ondacinema.it)

“Log” avrebbe dovuto essere la prima parola trasmessa fra due apparati distanti fra di loro, ma dopo le prime due lettere l’apparato si spense all’improvviso: la storia di internet iniziò con un crash di sistema.
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Lo And Behold ripercorre questa rivoluzionaria storia a partire dagli anni 60 di Arpanet e a quelle solide tecnologie militari che riuscivano a trasmettere mezza parola e poi andavano in crash, per arrivare ai monaci buddisti con lo smartphone in mano ed alla prospettiva di vivere su Marte e twittare i pensieri senza doverli scrivere.

Ma Herzog non si limita alla storia: come è naturale che sia le parti più interessanti del film sono quelle dedicate alle visioni sul futuro da parte di scienziati che progettano e studiano internet, di hacker, di matematici, di semiologi e di quelli che a noi piace tanto chiamare guru: il più realista di loro dice di voler prevedere solo cose che accadranno fra milioni di anni, così nessuno sarà in grado di dire che aveva torto.

Poi c’è la critica ad internet, al suo “lato oscuro” alle persone che popolano e animano la rete con la loro debolezza, la loro ignoranza, la loro brutale ed impunita violenza, attraverso le interviste alla famiglia di una ragazza che si vide recapitare via email le foto della propria figlia decapitata in un incidente d’auto.

Il film è forzatamente incompleto e superficiale, ma allo stesso tempo è profondo e visionario. Chi vive in internet e lo costruisce ogni giorno non dovrebbe perderlo.

La citazione: “Su Internet nessuno sa che sei un cane” (The New Yorker, 1993)

di Alessandro Guardabassi

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